Toxic positivity
Non è sempre oro
Perchè essere felici, per una vita intera, sarebbe quasi insopportabile
[C. Consoli]
Oggi voglio parlarvi di qualcosa che mi sta veramente a cuore, perchè spesso rappresenta un nucleo importante nel lavoro con i miei pazienti, grandi e piccoli. Perchè è ormai diventato un filo rosso, quasi sempre presente, nella trama del nostro tessuto psicosociale. Sto parlando di ciò che è stato nominato, forse in virtù dell'ostinato ricorso a dare nomi a qualsiasi cosa, toxic positivity. Si tratta però di qualcosa che tutti conosciamo; intercettiamo i suoi segni e i suoi segnali tramite i social network, programmi televisivi, fotografie, video e -più dolorosamente- anche nelle relazioni quotidiane. Spesso ne percepiamo la risonanza nel nostro interno; è un meccanismo che può attivare un profondo senso di invidia, di mancato riconoscimento, destrutturazione del senso di autostima e di autoefficacia. Quando è più marcato, quando attecchisce di più o contatta le nostre intime debolezze, può anche farci percepire un'estrema fragilità identitaria.
Ma cos'è la toxic positivity?
E' la "sindrome del clown", dell'ostentazione di una felicità a tutti costi. E' una positività esibita, ritagliata intorno a un ottimismo tanto permanente quanto fragile, che eclissa e condanna i sentimenti negativi, il senso di debolezza, la percezione del limite.Si declina socialmente nel ricorso, oggi spasmodico, a presentare -soprattutto tramite lo strumento dei social network- la propria vita come surrogato di una vetrina dei successi, dei momenti belli, delle gioie, delle feste interne ed esterne. Concerne più intimamente il bisogno di reprimere i sentimenti negativi, le angosce profonde, in favore di "tutto ciò che viene bene in foto", del cavallo vincente, della mise en scène della felicità .
Che risonanza ha una positività opprimente?
Non sarebbe corretto, nè lecito, sostenere che la "ricerca della felicità", sia un mito edulcorato ed illusorio da abbandonare perchè effimero e dannoso. Ognuno di noi tenta sempre piccole o grandi trasformazioni, nella speranza di stare bene, di stare sempre meglio. Si tratta in questo caso dell'innata tendenza a quell'élan vital, ovvero quella forza che ci spinge a rimodulare la nostra esistenza, conferendole senso e mutata direzione. Differentemente la positività tossica è diretta discendente dei processi di "formazione reattiva", ovvero quei meccanismi che ci conducono ad evitare e distanziare dolori e sentimenti angosciosi, amplificando e mettendo in scena tutto l'opposto.
Si tratta di un movimento psichico indubbiamente molto doloroso. Sebbene oggi molti meccanismi legati al marketing, alla pubblicità, alla comunicazione politica, se ne servano ampiamente, l'estroflessione di una positività "fake" genera un circolo di ripetizioni fittizie, di messe in scena, di costose esibizioni di una gioia senza architettura.
La questione di una positività tossica si connette senza dubbio a quella dell'esibizione del corpo perfetto, delle ricchezze, dei divertimenti, e delle gioie di vivere, con l'intento -duplice e ambivalente - di fornire ispirazione, motivare, stimolare a far meglio, e nel contempo suscitare invidie, nutrendo il desiderio narcistico di essere un "modello" a cui gli altri possano fare dolorosamente riferimento, scontrandosi infelicemente con le proprie mancanze, con ciò "che io non ho". E' una positività dell'oppresso, del sentirsi meno o di più, del cunotto della "vita pazzesca".
Quali sono le correlazioni psicologiche? Chi soffre di più?
Alla fine soffrono tutti. Credo sia importante ricordare ancora una volta che parlare di positività tossica in questi termini non coincide con il condannare l'ottimismo, la ricerca del benessere, la voglia di essere felici; tutt'altro. Di certo, anche in ambito psicologico, è stata nell'ultimo periodo conferita una lecita e ariosa importanza al benessere e alla motivazione, all'empowerment come risorsa e valore individuale e di gruppo. L'incedere di una tossicizzazione dei processi che sollecitano ed estremizzano la positività però, può generare moltissime conseguenze psicologiche che mi sentirei di includere in due filoni, di certo comunicanti e spesso coesistenti:
- Sentimenti di sfiducia, perdita dell'autostima, compromissione del senso di autoefficacia e percezione del fallimento. Il confronto con la positività esibita genera un senso di profonda distanza con ciò che è osservato, favorendo un'autopercezione negativa e limitata. Il complesso dell' "io non avrò mai".
- Meccanismi di adesione al modello, replica della positività e tentativo di repressione di vissuti negativi e angoscianti, bonificandoli attraverso la strutturazione di una "buona vetrina". Il complesso dell' "anche io posso averlo".
Trovo però che in ogni caso, prendendo atto delle conseguenze di una positività tossica in chi ne subisce la manifestazione e l'influenza, una certa attenzione debba essere riservata a chi la mette in atto ormai con automatismo, nella propria quotidianità lavorativa, affettiva e sociale. Mostrare ed esibire la propria vita come se fosse la rivista di una copertina patinata infatti, può generare un'immediata sensazione di benessere e saturazione, senso di potere, riempimento, sazietà. Tuttavià nell'atto di negare l'angoscia e non permetterle diritto di cittadinanza, risiede un senso di profonda sofferenza, che concerne l'impossibilità di esprimere il dolore, l'insoddisfazione, l'impotenza, la paura.
Il pericolo è quello del sopravvento di un "falso sè", che governa ogni movimento psichico e che prende il sopravvento su qualsiasi interstizio di verità. Una possibilità è quella di concedersi di accedere a sentimenti e vissuti depressivi, allontanandosi dall'abitudine a funzionare come una "fabbrica di cioccolato" che ostenta sfarzi e colori ma che nasconde e mistifca le antiche angosce dell'oscuro fondatore.
In tal senso potrebbere essere liberatorio concedersi di pensare, esorcizzando il rischio di confondere palco e realtà, che non sempre è oro tutto ciò che luccica.